Il barbiere di Siviglia

Introduzione all'opera

Roberto de Candia come Figaro (foto Edoardo Piva)

Introduzione all'opera

La prima del Barbiere di Siviglia fu un memorabile fiasco. Il teatro era l’Argentina di Roma, la data il 20 febbraio 1816. La rappresentazione fu continuamente disturbata dai fischi del pubblico. Per Rossini, tutto sommato, non era una novità: molte delle sue precedenti fatiche non avevano convinto i contemporanei. Ma il caso del Barbiere era diverso. Quel soggetto, tratto dalla celebre trilogia di Beaumarchais, era stato già sfruttato con enorme successo da Giovanni Paisiello nel 1782: riprenderlo sarebbe stato un rischio per chiunque, figuriamoci per un compositore che non era ancora riuscito a lasciare un segno davvero incisivo nella cultura musicale del suo tempo. Non a caso lo stesso Rossini aveva deciso di cautelarsi utilizzando un titolo diverso (la prima locandina, poi rivista, annunciava Almaviva, o sia l’inutile precauzione) e facendo scrivere un Avvertimento al pubblico, da allegare al libretto firmato da Cesare Sterbini, che suonava come un’imbarazzata excusatio non petita:

Il tanto celebre Paisiello ha già trattato questo soggetto sotto il titolo primitivo. Chiamato ad assumere il medesimo difficile incarico, il signor maestro Rossini, onde non incorrere nella taccia di una temeraria rivalità con l’immortale autore che lo ha preceduto, ha espressamente richiesto che il Barbiere di Siviglia fosse di nuovo interamente versificato, e che vi fossero aggiunte parecchie nuove situazioni di pezzi musicali.

Rossini fa invecchiare
di un secolo il Barbiere
di Paisiello, dando una violenta spallata al Settecento napoletano

L’ossequio nei confronti del grande modello era doveroso, ma il pubblico non era ancora pronto per acclamare un nuovo Barbiere. E Rossini stesso, Avvertimento a parte, tutto sommato si mise d’impegno per far invecchiare improvvisamente di un secolo il suo predecessore. Dopo che Rosina canta la sua aria «Contro un cor che accende amore», perfetto esempio del più avanzato e virtuosistico stile rossiniano, il vecchio Bartolo dice: «Ma quest’aria, cospetto, è assai noiosa; / la musica ai miei tempi era altra cosa»; dopodiché accenna a un’arietta compassata in pieno stile galante, che tutto sommato non sarebbe sfigurata nel Barbiere
di Paisiello. L’impietoso confronto sembra contraddire tutte le premure dell’Avvertimento al pubblico, dando una violenta spallata al Settecento napoletano. Rossini sostituisce l’ingenuità con la malizia, il sorriso con la risata incontenibile, l’uniformità del tempo musicale con un gioco di contrasti che spazia dalla staticità al dinamismo bruciante. Nonostante la devozione dei fedelissimi, l’era di Paisiello stava per tramontare, anche perché il capolavoro rossiniano – prima esecuzione a parte – avrebbe conquistato il pubblico già dalla seconda recita, raggiungendo addirittura New York nel 1826.

Rossini mette la musica davanti al testo, andando
in una direzione opposta,
per esempio, rispetto
a Mozart

La novità principale consisteva nell’aspetto ludico. L’opera di Rossini mette la musica davanti al testo, andando in una direzione opposta, per esempio, rispetto a Mozart. Ciò che conta è una costruzione formale che raggiunge i picchi espressivi attraverso una sapiente alternanza tra momenti di tensione e distensione: una scelta che molto spesso sospende le nozioni di tempo e di verisimiglianza, privilegiando le ragioni squisitamente musicali. La profondità interiore dei personaggi non serve, perché quello che interessa al compositore è il gioco di forze necessario per colpire – anche con violenza – l’emotività superficiale dell’ascoltatore.

Il Barbiere di Rossini è un’opera che celebra la nuova borghesia. Il suo «caos organizzato», per usare le parole di Stendhal, ha qualcosa di essenzialmente cittadino. Figaro e Rosina sono due arrampicatori sociali, mossi da un élan vital frenetico che tutto sommato sarebbe stato fuori luogo nell’era dell’ancien régime; Bartolo e Basilio sono invece la perfetta rappresentazione del vecchio mondo, quello che si muoveva a velocità dimezzata. Basta confrontare due tra i tanti scioglilingua cantati da Figaro («Bravo, bravissimo») e Bartolo («Signorina, un’altra volta») per notare un’enorme differenza: lo scaltro barbiere li affronta come una locomotiva stantuffante, mentre il tutore di Rosina sembra inseguire affannosamente la musica, come un signore un po’ anzianotto che vuole correre più veloce delle sue gambe.

Lavinia Bini (Berta), Chiara Amarù (Rosina), Nicola Ulivieri (Don Basilio), Antonino Siragusa (Il conte d'Almaviva) e Marco Filippo Romano (Don Bartolo) - foto Edoardo PivaSempre Stendhal diceva che nel Barbiere c’è poco amore. È vero: il sentimento dominante è quello della crudeltà, fondamentale strumento per arrivare alla caricatura dei vizi, trascurando rigorosamente la rappresentazione delle virtù. I personaggi sono marionette folli, dipinte con colori vivaci. La loro emotività interiore lascia il posto all’ingegno, ma l’ingegno non è messo al servizio dei buoni sentimenti, come potrebbe far pensare una lettura superficiale del libretto, perché tutto il dramma ruota attorno al fulcro del denaro: Figaro trasforma la sua mente in un vulcano «all’idea di quel metallo», il Conte d’Almaviva «certe ragioni ha in tasca» – dice Basilio alla fine dell’opera – che nessuno sa contraddire, Rosina è vicina a «di contento… delirar» quando scopre che sotto i panni del povero Lindoro si nasconde il Conte, e quanto a Bartolo, be’, anche lui non fa poi troppe storie quando scopre di non dover più provvedere alla dote della sua pupilla («Quel ch’è fatto è fatto. / Andate pur, che il ciel vi benedica»).

Ovvio che un dramma così, con l’ingegno come motore, necessiti di un carburante; e la benzina del Barbiere è il ritmo, il solidissimo scheletro di tutti i crescendo (le sezioni in cui un’idea ripetitiva produce un progressivo accumulo di timbri) e dei grandi concertati d’insieme: pagine piene di fantasia, tenute insieme dal collante della pulsazione. E stesso discorso vale anche per il virtuosismo canoro, caratteristica ricorrente di tutta la produzione rossiniana. I cantanti sono chiamati a prestazioni funamboliche: fioriture continue, vocalizzi vertiginosi, estensioni al limite dell’“umanamente possibile”; ma tutte le loro sbandate sono sempre ricondotte in
strada dalla quadratura del ritmo.

Nel Barbiere il compositore
ha scritto tutto e un virtuoso,
per impressionare la platea, deve solo eseguire
tutto ciò che è scritto

Naturalmente l’estrema ricchezza delle parti vocali ha sempre attratto le distorsioni dei grandi virtuosi. Ma l’opera in questione, tutto sommato, resta una delle meno problematiche sotto il profilo filologico: il manoscritto autografo – nonostante sia nato alla velocità della luce, in soli venti giorni – è molto chiaro; esiste un’edizione princeps del libretto; ad eccezione dell’aria del Conte («Cessa di più resistere»), successivamente espunta, non esistono revisioni complesse. In sostanza, del Barbiere sappiamo quasi tutto: abbiamo molte certezze in merito al testo originale e abbiamo anche ricostruito nel dettaglio tutti i numerosi “copia-incolla”, consueti per Rossini, da opere precedenti (la Sinfonia iniziale e la Cavatina del tenore, ad esempio, vengono dall’Aureliano in Palmira). Questo tuttavia non ha escluso circa due secoli di corrosioni, dettate unicamente dalle esigenze della spettacolarità. Robert Schumann, che nel novembre del 1847 ebbe l’occasione di sentire Pauline Viardot nel ruolo di Rosina, scrisse: «La Viardot fa di quest’opera una grande variazione: non lascia intatta una sola melodia. Quale falsa interpretazione della libertà del virtuoso!». Rossini nel Barbiere ha scritto tutto e un virtuoso, per impressionare la platea, deve solo eseguire tutto ciò che è scritto.

Andrea Malvano


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